Sulle dune….

A Pietro, Mara e Alberto

questo viaggio è una costante, continua ad accompagnarmi…..

Chiudete gli occhi.

Respirate.

Immaginate intorno a voi sabbia, solo sabbia, tanta sabbia…. tante dune sinuose, a perdita d’occhio.

Un orizzonte sfocato, un calore papabile, un senso di infinito.

La prima volta che mi sono ritrovata nel deserto dentro di me è cambiato qualcosa. 

Per la prima volta ho percepito l’immensità della natura, la sua grandezza, il suo logorroico silenzio,

E’ stato nel 2003, in Marocco e più precisamente a Merzouga.

Mi sono (in un certo senso) ritrovata nel deserto, perché, se sulla carta, il viaggio programmato contemplava le dune a Nord del Sahara, nella realtà, dopo aver affittato una macchina a Casablanca, aver attraversato l’Atlante ed esserci spinti nel Sud, senza nessun altro aiuto a parte quello di una Routard, la visita nel deserto risultava tutt’altro che scontata.

Inizialmente, arrivati a Rissani avevamo prenotato un tour in Jeep, di 2 gg, organizzato dall’albergo in cui dovevamo pernottare. 

Ma per due viaggiatori spartani come noi, l’idea di affidarci a qualcosa di organizzato lasciava un po’ l’amaro in bocca….e così l’incontro casuale con un ragazzo del posto che ci propose il deserto selvaggio, a dorso di un cammello, con pernottamento in una tenda berbera sotto le stelle, non lasciò spazio a dubbi. 

E così eccoci nel deserto, guidati da un beduino avvolto nella sua kefia, che per due giorni ci ha condotti su e giù attraverso dune infinite, sotto un sole ipnotico, dall’alba al tramonto. 

E che tramonto! 

E che alba! 

I colori dell’alba e del tramonto sono ancora impressi nella mia mente. E mi hanno talmente affascinata che dopo Merzouga è stata la volta del deserto Australiano di Ayers Rock, e poi del Wadi Rum in Giordania, e poi di El Calafate in Argentina. 

Tutti deserti estremamente diversi tra loro, ma accomunati da orizzonti infiniti e da un silenzio sconfinato.

Tornati dall’Argentina, per quasi 10 anni il deserto è rimasto sopito nei miei pensieri. 

E’ stata la bici a far riemergere il desiderio di deserto, di pedalare nel nulla, con me stessa, attraverso spazi infiniti.

Quando Pietro (Pietro Novelli) conosciuto in occasione di un giro in fat all’Alpe di Siusi, ha lanciato la proposta di un viaggio in fat in Tunisia la testa ha cominciato a girare. 

E quando, di ritorno dal suo primo viaggio, a primavera 2019, ha cominciato a postare le foto, la mia testa non ha più voluto sentire ragioni.

Quando l’ho contattato la prima volta mi ha presa sul serio, ma fino ad un certo punto. 

La sua filosofia era “tranquilla”; della serie: organizziamo! tanto al momento dell’ok siamo un tot, al versamento della caparra ci dimezziamo, alla partenza ci ritroviamo io e La Mara (la moglie).

E invece alla fine siamo partiti! In 4! Lui, la Mara, io e mio marito (che se all’inizio non ci voleva venire, alla fine era quasi più fomentato di me).

La Tunisia è stata una scoperta.

Rispetto al Marocco l’avevo sempre un po’ denigrata. La consideravo un po’ la sorellastra, imbastardita e snaturata dal turismo occidentale. 

E invece….Ho capito quanto mi sbagliavo nel momento in cui, affittata la macchina, siamo usciti dall’aereoporto di Tunisi. 

Un delirio! Il classico delirio di suoni, colori e profumi che ti avvolgono ogni volta che arrivi in Africa. Noi occidentali la definiamo anarchia, ma in realtà è vitalità e (a volte eccessiva) leggerezza nel vivere la vita. 

Nella semplicità delle loro vite i tunisini sono gioiosi, accoglienti, empatici, disponibili, colorati. 

Mai invadenti o molesti.

Fanno del loro meglio per farti sentire a tuo agio.

Si prodigano in ogni modo se sei in difficoltà.

I cieli tunisini sono immensi! Gli spazi sono aperti, le case sono basse, le città sono stracaotiche, a nord come a sud, e man mano che vai a sud percepisci il deserto che avanza perché la sabbia ti inghiotte e la vegetazione sparisce, lasciando spazio solo ai datteri.

Quando si arriva a Douz, alle porte del parco del J’Bil si ha l’impressione che tutto prenda forma dalla sabbia. 

Le case basse sono color sabbia; le strade sono ricoperte di sabbia; i cammelli e i motorini scasciati la fanno da padroni; l’illusione che ci sia sempre acqua all’orizzonte ti fa impazzire. 

Ma l’acqua è, per l’appunto, solo un’illusione e la sensazione di sete e arsura non ti abbandona mai.

L’idea di attraversare il deserto in fat bike è venuta a Pietro dopo anni da fuoristradista. 

Tour dopo tour, semiasse spezzato dopo semiasse spezzato, da ciclodisagiato (come lui ama definirsi!) ha avuto questa straordinaria intuizione: attraversare il parco del J’bil supportati da un fuoristrada.

E l’idea pian piano si è trasformata in realtà e si è perfezionata.

La conoscenza del territorio, acquisita negli anni di tour con la Jeep, gli hanno consentito la creazione di una traccia; e l’esperienza diretta, maturata durante i viaggi precedenti, gli ha fornito le competenze necessarie per avventurarsi in questa impresa.

La consapevolezza che non siano in tanti ad andare in Tunisia in bicicletta l’abbiamo maturata subito. 

La mia fat imballata a puntino ha destato più di qualche curiosità già all’imbarco a Fiumicino. Ma quando siamo arrivati a Douz, regno di fuoristradisti e motociclisti, siamo stati catalogati direttamente come marziani.

Eppure, quale miglior mezzo per perdersi (letteralmente!) tra le dune. 

Traccia alla mano, il deserto si snoda in un numero considerevole di piste, tutte apparentemente parallele, tutte apparentemente segnate, eppure tutte terribilmente mutevoli. 

Il vento, incessante disegna ogni giorno nuovi percorsi e l’unico modo per uscirne è seguire la direzione sul GPS.

E là dove sembra impossibile perdersi, in realtà, perdersi è un attimo perché le dune sono infide: quando le cavalchi domini l’orizzonte e hai l’impressione di sapere perfettamente dove stai andando, ma quando le attraversi ti racchiudono in un labirinto inespugnabile e basta un soffio di sabbia per farti annaspare .

Il supporto del mezzo per attraversarlo è stato fondamentale. 

In quattro, in 100 km, abbiamo bevuto più di 20 litri di acqua, senza contare i rifornimenti di the e bevande nei 3 cafe che abbiamo incontrato durante la traversata. 

La sete è stata una sensazione costante.

Abbiamo iniziato a percepirla già poco dopo la partenza, quando l’asfalto ha lasciato il posto alla sabbia. E poi si è intensificata, man mano che l’aria si scaldava e il sole saliva nel cielo. E poi a un certo punto è diventata insaziabile e la gola è rimasta secca nonostante bevessimo continuamente.

E’ stato incredibile.

Partire all’alba, con quella luce bianca che rende tutto un po’ surreale e  mette in contrasto il profilo delle dune con il cielo ancora cupo e assonnato.

Ritrovarsi nelle ore centrali della giornata con il sole a picco e un riverbero che ti fa sempre dubitare se quello che stai vedendo sia reale o un’illusione.

Arrivare al tramonto, quando tutto si colora di rosso e di viola e il sole scompare in poco più di un attimo e tu non hai più nessuna altra luce al di là delle stelle…..     

E’ stato incredibile.

Dormire in una tenda, ai margini dell’oasi di Ksar Gilane, accanto al fuoco, per non sentire il freddo e la stanchezza accumulati in quei 100 km sulla sabbia.

E stato incredibile.

Svegliarsi la mattina dopo con il vento del deserto che spazza tutto e rema contro e ti fa impiegare 6 ore per percorrere 50 km….

 Il deserto è così, rema contro, ma ti trasmette un’energia tale che non ti si scrolla più di dosso.

Sono passati 5 mesi da quando siamo tornati, ma il deserto è ancora lì.

Il richiamo è costante.


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